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Anginofobia: quando il cibo si trasforma in pericolo!

L’ Anginofobia rientra tra le fobie non altrimenti specificate e descrive la paura irrazionale, esagerata, di soffocare a causa di qualcosa che potrebbe andare di traverso: alimenti, pillole, sostanze liquide o, in casi estremi la stessa saliva. Negli ultimi mesi, complice il periodo di intenso stress, stiamo assistendo alla comparse di forme più strutturate di sofferenza emotiva e la riacutizzazione divecchi atteggiamenti disfunzionali. Lo stress, infatti, induce una vulnerabilità verso tutte quelle circostanze che la nostra mente di solito affronta in modo più efficace, determinando maggiore rigidità e risposte disfunzionali. Recentemente, uno studio pubblicato su Journal of Affective Disorders da un team multicentrico di ricercatori (ISS, Università di Genova eIstituto Mario Negri), ha indagato l’impatto della pandemia sulla salute degli italiani: oltre il 40% degli intervistati, soprattutto donne, ha riferito un peggioramento dei sintomi ansioso-depressivi con importanti ripercussioni sul ritmo sonno-veglia e una riduzione della qualità di vita in più del 60% dei soggetti coinvolti. Lo studio ha evidenziato, inoltre, un incremento nell’uso di psicofarmaci nel 20% dei casi rispetto al periodo precedente, con un impatto su tutti gli indicatori di salute mentale e benessere.

Questa condizione può essere talvolta presente assieme a condizioni mediche che ne determinano la maggiore o minore rilevanza: la disagia, ed altre alterazioni del processo di deglutizione, è tra le condizioni mediche che più di tutte potrebbero innescare il disturbo o amplificarlo. E’ sempre opportuno, pertanto, effettuare un’attenta valutazione medica di tutti i fattori (soprattutto in riferimento alle condizioni mediche)presenti nel momento in cui si manifesta il disturbo, al fine di valutarne l’incidenza.

 

Possono essere isolate tre diverse componenti del disturbo da anginofobia: ideazione, emozione-sensazione, comportamento.

 

Chi soffre di tale disturbo presenta spesso dei contenuti di pensiero specifici, sia anticipatori che situazionali:“Soffocherò”, “Mi mancherà l’aria”, “Farò una brutta figura”, “Penseranno che ci sia qualcosa di strano nel mio modo di mangiare o ingoiare”, “Non riuscirò più a vivere normalmente come facevo prima”, “Nessuno vorrà stare con me per via di questo problema”, etc.

 

Questi pensieri descrivono il

tentativo della nostra mente di preservare le aree di valore (salute, stima e valore personale) che risultano minacciate dagli eventi di cui facciamo esperienza. Quando gli individui attribuiscono a questi pensieri (e al loro contenuto) il potere di descrivere fedelmente la realtà, essi acquisiscono di conseguenza un valore diverso da ciò che realmente posseggono: pensare di poter soffocare diventa una previsione fedele della realtà e questo genera uno stato di intensa sofferenza emotiva.

 

Proviamo a fare un piccolo esperimento assieme: immaginate che la vostra mente vi suggerisca il pensiero che il tetto sopra la testa o il pavimento sotto i vostri piedi possa cadervi addosso o spalancarsi frantumandosi.

 

Immaginate di credere fedelmente a questo pensiero mentre ne fate esperienza.

Cosa provereste in questo momento?

 

Io credo proverei Ansia, angoscia, disperazione.

Esattamente ciò che potrebbe provare una persona che crede al pensiero di soffocare e morire.

Le emozioni-sensazioni sono lo strumento attraverso cui la nostra mente tenta di metterci al riparo dal pericolo, hanno la funzione di segnalarcene la presenza rendendo il pensiero che le accompagna molto più realistico. Quando proviamo emozioni o sensazioni intense, tentiamo di agire nel tentativo di ridurle o sbarazzarcene, agendo quindi per risolvere un problema o evitare il pericolo che la nostra mente ci ha segnalato. Questo permette alla nostra esperienza emotiva di attenuarsi per qualche istante, concedendoci sollievo e sicurezza. Vedremo in seguito che questa sicurezze e questo sollievo sono in realtà delle trappole, che ci imprigionano in attività e atteggiamenti che impoveriscono le nostre vite. Chi soffre di un disturbo da anginofobia mette in pratica tutta una serie di comportamenti protettivi finalizzati a ridurre il rischio o evitare il pericolo (mangiare lentamente, bere cibi sminuzzati, evitare certi cibi o bevande, monitorare il processo di deglutizione, evitare di mangiare in pubblico o da soli, etc etc) il cui unico risultato, dopo averlo scelto o agito, è quello di ridurre temporaneamente lo stato d’ ansia o paura. Il pericolo temuto, infatti, non esiste nel modo in cui lo abbiamo immaginato, nel modo in cui lo descrive la nostra mente, ciò da cui fuggiamo soltanto il pensiero che lo descrive. Per loro natura e funzione i pensieri hanno la capacità di“illuderci” di poter descrivere fedelmente la realtà e guidano il nostro comportamento lontano dal pericolo. Quando la nostra mente riesce ad essere convincente rispetto a quanto descritto, a quel punto si fa fatica a distinguere tra ciò che esiste realmente e ciò che è solo un pensiero, e finiamo per agire nel tentativo di risolvere problemi che esistono soltanto tra i contenuti dei nostri pensieri. Questo atteggiamento, di per sé non è un problema, piuttosto rappresenta un modo “volontario” attraverso cui contribuiamo ad impoverire e complicare la nostra vita. È come pagare un debito non dovuto. Rinunciare ad una cena con amici genera sofferenza, mangiare secondo un preciso ordine e metodo comporta una perdita di tempo e la rinuncia a qualcosa di buono o utile che abbiamo sempre consumato o vorremmo consumare in futuro, la ricerca di rassicurazioni o l’aiuto di un partner nel sostenere questa condotta avvelena i rapporti e li impoverisce. Queste circostanze sono la vera fonte di disagio e sofferenza, a lungo termine,  per chi soffre di Anginofobia, così come per ogni altra forma di disturbo ansioso o fobico. Senza trascurare che passiamo ore ed ore della nostra vita, delle nostre giornate, ad immaginare pericoli e momenti che non accadranno mai e a vivere, durante quei momenti, intense emozioni e sensazioni che ci appesantiscono e rendono difficile svolgere ogni altro tipo di azione.

 

 

Questi sono gli elementi centrali del disturbo, e possono presentarsi anche in momenti diversi e lontani dai pasti.

 

Il pensiero può essere anticipatorio, la persona inizia a pensare al momento del pasto e riflette incessantemente sulle possibili soluzioni da adottare per evitare il pericolo, ma allo stesso tempo quel pericolo lo immagina e vive come se dovesse accadere realmente quindi entra in uno stato di tensione e questo genera quelle stesse sensazioni da cui vorremmo fuggire. E’ paradossale, spesso lo stesso tentativo di evitare un pericolo non ancora accaduto finisce per generarlo: lo stato di tensione potrebbe attivare quelle stesse sensazioni che abbiamo provato quando in passato abbiamo vissuto situazioni di pericolo (più avanti affronteremo efficacemente il modo in cui questa e tutte le altre fobie si scatenano) e queste potrebbero confonderci facendo credere che quella sensazione alla gola che sto provando mentre mangio sia il segno di qualcosa che sta andando storto. Quindi interrompiamo il pranzo e viviamo momenti di angoscia, confermando l’idea che ci sia qualcosa che non va in noi.

Oppure situazionale, iniziamo a mangiare e la nostra mente ci suggerisce “Sarebbe terribile se il cibo mi andasse di traverso, devo stare attento”. Anche questo pensiero attiva uno stato di allerta e tensione, generando le stesse reazioni di apprensione e tensione che finiscono attivare condotte di fuga o evitamento.

 

Il pensiero, e il modo in cui ci rapportiamo ai contenuti dei nostri pensieri, rappresenta il cuore del disturbo, è ciò che mantiene attivo il disturbo per anni in alcune circostanze.

 

 

In che modo si sviluppa un disturbo fobico o Anginofobia?

 

Torniamo ad un esempio.

 

Immagina di essere bambino e di giocare tranquillamente nel tuo giardino. Sei spensierato e non immagineresti mai che potrebbe accadere qualcosa che rovina la tua tranquillità.

Il cane del vicino di si libera di colpo della corda che lo lega alla cuccia e ti corre incontro riuscendo ad afferrarti per i pantaloni. È probabile che il quel momento la tua mente ti faccia sperimentare uno stato di intenso terrore e che tutto il tuo corpo si attivi nel tentativo di sfuggire a quella presa.

La parte del cervello che si occupa delle reazioni di allarme è fuga è l’amigdala. Una piccola formazione a forma di guscio di mandorla che si occupa anche di generare collegamenti tra gli stimoli sensoriali e le nostre emozioni: quando un evento ha attivato le nostre emozioni in modo molto intenso, soprattutto paura e terrore (più affini al rischio sopravvivenza e quindi rilevanti), l’amigdala attribuisce a quell’evento un valore rilevante, più di ogni altro.

Compito dell’amigdala è registrare non solo il volto del cane che mi sta aggredendo ma tutte le altre informazioni che i miei sensi stanno ricevendo dall’ambiente: suoni, temperatura, gusti, ed ogni altra percezione disponibile. In tal modo si ottimizzano le probabilità di sopravvivenza, sviluppando l’idea che se uno di questi stimoli si presentasse (anche in assenza del cane che mi ha aggredito realmente) è meglio stare in allerta perché potrebbe esserci un cane da qualche parte.

Questo, in parole semplici, è il processo che genera le fobie. Esse sono sempre apprese dall’ambiente in cui viviamo, o per esperienza diretta (il cane che mi morde) o per esperienza indiretta (sentir parlare a qualcuno a cui attribuiamo una certa credibilità di eventi in cui un cane lo ha aggredito).In quest’ultimo caso la nostra mente genera dei collegamenti arbitrari, imperfetti, che diventano disponibili quando la circostanza che ci è stata raccontata si presenta a noi: se mentre passeggiamo vediamo un cane che ci corre incontro, la nostra mente svilupperà immediatamente un collegamento trail cane che corre e quello che è accaduto al mio amico arrivando alla conclusione che quel cane morderà di certo anche me. Questo pensiero darà vita ad un vissuto di terrore che mi spingerà a fuggire dal cane anche se non ho la certezza che mi avrebbe morso, ma a quel punto sarà difficile convincermi del contrario.

 

Questo processo, alla base della genesi delle fobie, è presente anche nel disturbo da anginofobia.

 

Potrebbe capitare di trovarsi a tavola con i propri cari, mangiare un boccone di carne e far fatica a deglutire oppure rischiare di soffocare. A quel punto si attiverebbe uno stato di profonda paura e la nostra amigdala collegherà le singole sensazioni o percezioni al vissuto di terrore: la consistenza del boccone ed ogni altra informazione sull’alimento (gusto, odore, solido o liquido), la lubrificazione o meno della bocca, la sensazione di tensione alla bocca o eventuali altre sensazioni fisiche come nausea o tachicardia, la presenza di persone a tavola o l’essere in un luogo chiuso o all’aperto.

 

Da quel momento in poi, in prossimità di un pasto o di uno degli elementi presenti durante il pasto precedentemente memorizzati, ricorderemo la brutta esperienza vissuta e questo attiverà il pensiero: soffocherò nuovamente, farò una brutta figura, etc etc.

 

Questo pensiero, vissuto come se fosse una fedele descrizione della realtà, attiva le stesse sensazioni che riteniamo pericolose convincendoci che stia realmente per accadere qualcosa di brutto oche accadrà. A quel punto, in stato di profonda agitazione, il pensiero di soffocare prende il sopravvento e scegliamo di interrompere il pasto o di agire ogni altro tentativo di protezione.

 

Ma il pericolo era reale?

 

Nella maggior parte dei casi il pericolo è solo presente tra i contenuti dei nostri pensieri e lo stato di agitazione non è il frutto di qualcosa di realmente rischioso ma del modo in cui abbiamo trattato quel pensiero, ossia dell’aver creduto che il pensiero stesse descrivendo realmente ciò che sarebbe accaduto. Agendo con continuità la condotta di evitamento e le strategie protettive, si consolida il repertorio disfunzionale, con un duplice risultato: l’impoverimento della qualità di vitae il mantenimento del disturbo nel tempo, con conseguente comparsa di ulteriori vissuti emotivi intensi tra cui ansia e depressione.

 

 

E’possibile risolvere il disturbo da anginofobia?

Questa particolare forma di fobia, come ogni altro disturbo d’ansia, può essere risolto efficacemente, soprattutto se affrontata in tempo e con il giusto approccio. La psicoterapia cognitivo comportamentale, soprattutto nel modello ACT (Acceptanceand Commitment Therapy) rappresenta oggi uno standard di eccellenza e permette di affrontare il disturbo in modo risolutivo, riducendo il rischio di possibili future ricadute. Principio centrale, di questo trattamento, è che non c’è nulla di rotto o malato nella persona che lo agisce. I comportamenti che agiamo vengono affrontati essenzialmente nella loro maggiore o minore utilità rispetto agli scopi personali. In una prima fase, si lavora per valutare quanto utili siano effettivamente state utili le strategie utilizzate per fronteggiare la paura di soffocare o stare male. Se ne valuta l’efficacia a breve e lungo termine e quasi sempre ci si accorge che nel breve termine si ottiene un breve momento di sollievo ma a lungo andare si diventa schiavi dei propri pensieri, delle proprie rinunce e questo contribuisce a rendere più complessa e difficile la nostra vita, con conseguente stati di sofferenza. Il processo di terapia ha l’obiettivo di sostenere le persone a notare il reale potere dei pensieri imparando a trattarli come tali, prendendone le distanze, piuttosto che esserne guidati e travolti. Attraverso la mindfulness si allena la capacità di rinunciare ad ogni tipo di controllo nei confronti delle sensazioni fisiche, promuovendo un rapporto non conflittuale quanto piuttosto utile e funzionale con l’ esperienza interna. Si scopre che di fronte ad ogni evitamento o comportamento protettivo è sempre disponibile un’alternativa più utile, verso la quale si allena la capacità di scelta. Obiettivo della terapia non è ridurre o sbarazzarsi delle sensazioni fisiche o dei pensieri quanto piuttosto ampliare il proprio repertorio di scelte e comportamenti anche in presenza di sensazioni e pensieri che a volte vorremmo non provare. In terapia ci si allena ad agire efficacemente, e quindi a poter consumare un alimento o bere una bevanda riducendo su tali scelta il potere che in passato abbiamo attribuito alla nostra mente. Si impara a vivere efficacemente il qui e ora e meno tra i pensieri che la nostra mente ci racconta di continuo.

Questo approccio permette di ripristinare adeguati livelli di benessere e una qualità della vita ottimale.

Al termine della terapia, la persona sarà in grado di agire efficacemente nei momenti in cui prima sperimentava grandi difficoltà, consumando il proprio pasto o la propria bevanda nei momenti e con la compagnia che per lui sarà utile o importante. Lo farà anche quando la sua mente dovesse ricordargli di quanto è stato brutto rischiare di soffocare o quanto terribile potrebbe essere vivere nuovamente un’esperienza simile. I pensieri torneranno ad avere il ruolo che è giusto abbiano, semplici pensieri, piuttosto che qualcosa in grado di prevedere il futuro o influenzarlo. È utile, inoltre, sottolineare che la terapia non agisce efficacemente sul contenuto della paura attuale ma allena processi che permetteranno alla persona di acquisire quei livelli di flessibilità e quelle strategie che potranno sicuramente tornare utili in ogni altro momenti della nostra vita in cui la nostra mente dovesse nuovamente raccontarci qualcosa che potremmo vivere con apprensione. Impariamo a stare al mondo efficacemente, qualsiasi sia l’emozione o il pensiero che ci accompagni dentro.

 

 

 

 

Il link alla ricerca citata nell’articolo:

 

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0165032721005632?dgcid=author

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