La sofferenza psicologica

Circa una persona su 5, nel corso della propria vita, secondo uno studio europeo (ESEMeD), ha sofferto   di   una   forma   di   disturbo   

psichico, un’alterazione   del   funzionamento   dei   processi cerebrali   con importanti ripercussioni a livello emotivo, affettivo e socio-relazionale. I disturbi psicologici maggiormente   diffusi,   nella   nostra   società   ed   in   questo   particolare   momento storico, riguardano   prevalentemente la dimensione ansioso-depressiva .   Nel   primo   caso (dimensione   ansiosa)   l’individuo   sperimenta  l’anticipazione   apprensiva   di un pericolo o di un evento futuro ritenuto pericoloso, mentre nel secondo (dimensione depressiva) è prevalente una pervasiva alterazione del tono dell’umore che induce a un ritiro progressivo, invalidante, dalle attività in cui il soggetto era prima impegnato  in modo significativo. In entrambi i casi, la sintomatologia che il soggetto sperimenta è altamente invalidante e arreca una notevole quantità di disagio. Nonostante   esistano   numerose   e   articolate   categorie   diagnostiche,   non   sempre   un comportamento   o   sintomatologia   può   essere   definito   come   patologico.   

Disturbi Psicologici

L’attuale   Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali (DSM), giunto alle 5 edizione, raccoglie più di 370 disturbi mentali, tra questi rientrano pure disturbi quali la sindrome disforica premestruale e il disturbo da astinenza da caffeina . Appare chiaro, dunque, che problematico non è tanto il comportamento in sé quanto piuttosto l’impatto   che   quest’ultimo   ha   sul   benessere   dell’individuo   e   delle persone   a   lui   vicine.   Il comportamento   patologico,   infatti,   differisce   da   quello   normale   soltanto   per   intensità   e frequenza, non per la tipologia. A quanti è capitato, nel corso della propria vita, di essere in apprensione per un esame o per i risultati di una visita medica, quanti di noi hanno sofferto per la perdita di un familiare o per la fine di una relazione. 

Ciò   che   attribuirebbe   a   questi   comportamenti   l’etichetta   di   “disturbo”   sarebbero   solo   ed esclusivamente l’elevata frequenza nel tempo, l’intensità eccessiva con cui si manifestano, a patto che la presenza di queste variabili rendano difficile la possibilità di raggiungere, giorno dopo giorno, gli obiettivi personali: andare a scuola e portare a compimento il percorso di studi, andare   a   lavoro   e   svolgere   in    modo   efficace   le   proprie   mansioni,   intrattenere   relazioni significative, gestire il tempo libero in modo ricco e soddisfacente, in linea con i propri valori e attitudini, e qualsiasi altra circostanza in cui il soggetto, prima della comparsa dei sintomi, era solito  essere impegnato. Questa tipologia di comportamenti, pertanto, sarebbero  più  vicini  a una classe di comportamenti non funzionali , in tal senso descrivono meglio l’impatto che hanno sulla qualità della vita e sul benessere del soggetto. Possedere un repertorio di comportamenti non funzionali è cosa comune e frequente purtroppo, qualsiasi l’ età, l’estrazione sociale, razza o cultura. A riguardo sembra opportuno introdurre il concetto di   area di confort ( vedi figura in alto) . 

Area di confort e bisogni personali

L’area di confort è una dimensione   del   vivere  che   accomuna   tutti   gli   esseri   viventi,   evitare   il   pericolo   è   un atteggiamento alla base della lotta alla sopravvivenza, nel caso degli esseri umani essa ha però una valenza diversa perché agisce non solo sul processo di sopravvivenza ma anche, in modo indiretto, nel limitare la possibilità di vivere una vita ricca e significativa. Per definire al meglio questa   modalità, adottata   spesso   dalle   persone   nella   loro   quotidianità,   è   importante   avere chiaro il  concetto  di bisogno e apprendimento.  Ogni essere vivente sulla terra è guidato nel proprio agire da una serie di spinte al comportamento. Nonostante non sia possibile vederli o​ toccarli con mano,  i bisogni sono quanto di  più  potente  in natura sia in grado di  condizionare  i nostri atteggiamenti e comportamenti. Fu lo psicologo statunitense A. Maslow il primo a darne una   descrizione   che   permettesse   al   contempo   di   comprendere   in   che   modo   influenzano   il comportamento degli esseri viventi. La “ piramide dei bisogni ” di Maslow (vedi figura in basso) mostra in che modo i nostri   atteggiamenti,   e   le nostre   scelte,   risentano   notevolmente   delle   dinamiche   relative   a queste   spinte.   Il   soddisfacimento   dei   livelli   alla   base   (primari)   è   essenziale   perché   i   livelli superiori possano agire una qualche forma d’influenza.  

Pertanto,   se   un individuo non ha soddisfatto il bisogno di sicurezza personale (vivendo per esempio in una zona di guerra e mettendo a rischio giorno dopo giorno la propria vita) non avrà di certo il bisogno di ​pensare   all’abito   firmato   o   di   pensare   a   come   potere elevare   la   propria   condizione   o   status   socio-relazionale. Riportando   tutto   a   dinamiche   meno   estreme,   rispetto   a quelle descritte, non è raro che una persona, a seguito di un   forte   periodo   di   stress   e   di   una   forte   sintomatologia ansiosa, quale per esempio un attacco di panico, da quel momento   in   poi   scegliere   di   vivere   nella   propria   area   di confort,   rinunciando   quindi   ad   ogni   altro   aspetto,   prima utile e significativo, ma che al momento non ha la priorità sul   bisogno   di   sicurezza   personale:   da   quel   momento   in poi potrebbe decidere di non recarsi più in luoghi affollati per paura di sperimentare nuovamente una crisi d’ansia e non   essere   al   sicuro   a   contatto   con   così   tanti estranei   ritenuti   non   idonei   a   gestire   il   suo problema   o   magari   potrebbe   pensare   che   quegli   stessi   estranei   potrebbero   ridere di   lui imbarazzandolo in modo insostenibile. A queste circostanze potrebbe preferire rimanere a casa protetto dalle 4  mura  e dalle rassicurazioni delle  figure   di  riferimento,  magari  accettando di uscire   ogni   tanto   solo   in   compagnia   della   fidanzata   o   del   marito   (area   di       confort).     Cosa vogliamo che importi a quella persona di trascorrere il tempo libero in modo piacevole, passerà tutto il tempo a controllare i suoi parametri vitali e sceglierà accuratamente quali circostanze e situazioni evitare per non incorrere in un rischio per la propria salute. Nella mia pratica clinica ho avuto l’opportunità di vivere numerosi confronti con le persone che hanno richiesto il mio aiuto, sia essi abbiano deciso di intraprendere il percorso di terapia o semplice sostegno, sia che invece il rapporto sia terminato solo dopo un colloquio conoscitivo. Ringrazio ognuno di loro perché,   oltre   ad   offrirmi   l’opportunità   di   esercitare   la   mia   professione,   mi   hanno   sempre insegnato qualcosa che ha arricchito la mia formazione e il mio bagaglio di valori.  

Linguaggio e convinzioni personali

Un aspetto rilevante, nel contesto disagio psicologico, sono l'insieme delle convinzioni e idee che abbiamo spesso rispetto al disagio o sofferenza che viviamo:  

“..dottore le mie emozioni sono troppo intense, non riesco a vivere.. ”

“.. il mio problema è l’ansia che non mi lascia in pace.. ”,

“.. mi aiuti a togliere i pensieri brutti dalla mia testa.. ”.  

Queste, e  tante  altre idee rispetto  alla  natura dei problemi psicologici, lasciano intendere che   nella   maggior parte   dei   casi,  come sapientemente espresso da Epitteto (più che dagli eventi l’uomo è turbato dall’opinione che ha di essi)  ciò che sta all’origine della sofferenza è anche e soprattutto influenzato dall'insieme di idee, pensieri, immagini, che le persone hanno rispetto alla propria esperienza, sia essa interna che   esterna.   Pertanto,   è   chiaro   che   ad   essere   problematica   non   è   tanto   la   presenza   di   una leggera o intensa tachicardia quanto piuttosto il significato che per me ha quella sensazione: “sto per morire, sto per avere un attacco cardiaco”. E’ proprio quest’ultima considerazione a generare lo stato di allarme e la conseguente sintomatologia ansiosa.   Le idee che la nostra mente   ci   suggerisce,   distorte   e   ricche   di   numerosi   errori   di   ragionamento (generalizzazione, inferenza   arbitraria,   astrazione   selettiva,   catastrofizzazione,   etc..)   verso   le   circostanze   che viviamo quotidianamente sono come dei gettoni che attivano un’ampia gamma di emozioni che guidano, in alcune circostanze, gli atteggiamenti e i comportamenti individuali.

Secondo una visione più attuale della psicopatologia, appare centrale il ruolo del linguaggio e delle parole che la nostra mente ci propone per descrivere e gestire gli eventi esterni. Il processo di pensiero, al centro del quale vi   sono   appunto   tutti   gli   elementi   dell’esperienza   mentale (immagini,   sensazioni,   pensieri) rappresenta il cuore dell’esperienza terapeutica, è proprio sul rapporto tra persona e linguaggio che   si   gioca   la   parte   più   importante   dei   risultati   che   è   possibile   ottenere   nel   corso   di   un rapporto di terapia. Compito del terapeuta è quello di guidare la persona lungo un percorso attraverso cui apprendere abilità, strategie, atteggiamenti utili ad assumere nei confronti della propria   esperienza   interna   un   atteggiamento   distaccato,   non   giudicante   e   non   conflittuale. Quello che  accade dentro  di  noi,  sia esso una sensazione  o pensiero  o  emozione, ha ragion d’essere e pertanto non ha alcun potere di crearci un danno, a meno che non sia la persona stessa a modificare il valore di quella esperienza, complice il linguaggio umano, ed entrare cosi in un conflitto senza fine. Il dolore, e più in generale la sofferenza dovuta a tutti quegli eventi della   vita   che   sono   fuori   dal   nostro   controllo,   non   è   qualcosa   che   gli   esseri   umani   possono controllare a   proprio   piacimento.   Quando   proviamo   a   farlo,   evitando   emozioni   intense   o cercando di capirle e definire attraverso il linguaggio, contribuiamo a generare ulteriore disagio e sofferenza. Il dolore è un aspetto normale della vita, non lo è però la sofferenza, quest’ultima è il risultato, piuttosto, di come ci relazioniamo al dolore, combattendolo appunto. Una delle più comuni   ed   errate convinzioni   umane   riguarda   il fatto   che   si   debba sempre   essere   felici   e   che   il dolore   non   debba esistere. La vignetta che segue è   un’illustrazione molto     esaustiva     di     come crediamo       debba andare   la   vita   e   di   come   in realtà       essa       si svolge.

I Disturbi :
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