La sindrome del Colon Irritabile è una condizione cronica che colpisce un italiano su 5, in prevalenza donne, con una prevalenza tra il 5-15% tra la popolazione occidentale (Choung & Locke, 2011).Tende a esordire in adolescenza e prima età adulta. L’esordio successivo può accadere, ma meno comune. Tale condizione causa attacchi sintomatici ricorrenti, a intervalli irregolari. Condiziona profondamente la vita di chi ne soffre, con gravi limitazioni e ripercussioni sulla qualità della vita. Ad essa si accompagna quasi sempre una marcata sintomatologia psichiatrica, disturbi d’ansia e depressione sono le condizioni più frequenti. La causa è sconosciuta e la fisiopatologia non è completamente chiara. La diagnosi è clinica. Il trattamento è sintomatico e consiste in una modificazione del regime alimentare e nell'assunzione di farmaci, inclusi anticolinergici e agenti attivi sui recettori serotoninergici.
L’approccio psicologico con la terapia cognitivo comportamentale
La sindrome del colon irritabile rientra tra le patologie ad andamento cronico e tra quelle che hanno il più alto impatto sulla qualità della vita e sul funzionamento sociale, lavorativo e relazionale dell’individuo.Sappiamo che una cura risolutiva che agisca sulle cause del disturbo non esiste, gli stessi processi alla base della patologia non sono ancora noti completamente. Siamo in grado di modificare alcuni fattori che mantengono o aggravano il disturbo quali l’alimentazione e le condotte igieniche. La psicoterapia cognitivo-comportamentale è oggi un trattamento d’elezione per le dimensioni psicologiche collegate alle cronicità. Sono fondamentalmente due le dimensioni lungo le quali agisce il processo terapeutico:
- Il rapporto che la persona sviluppa nei confronti di idee e credenze collegate alla patologia e le conseguenze che esso produce sul repertorio comportamentale e sulla qualità di vita del soggetto;
- L’ acquisizione di abilità e atteggiamenti funzionali con il quadro della patologia;
Di fronte ad un dolore persistente, ad una condizione verso la quale ci si percepisce impotenti, a delle abitudini o cambiamenti di vita che producono limitazioni importanti, la nostra mente attiva specifiche strategie nel tentativo di risolvere il problema e soprattutto di alleviare la sofferenza che suscita. Tali tentativi prendono il nome di Strategie di coping (to cope=gestione del problema) ma non sempre risultano funzionali ai reali scopi ed obiettivi della persona.
Come esseri viventi siamo programmati a fuggire dal dolore e dalla sofferenza, agiamo nel tentativo di avere sollievo dagli stati dolorosi del copro e della mente, siano essi una sofferenza fisica (il dolore che percepiamo nel corpo come manifestazione della condizione patologica) o emotiva (conseguenza e manifestazione del modo in cui percepiamo quel dolore, del modo in cui crediamo che quel dolore limiterà le nostre vite). Quando le sensazioni fisiche raggiungono e superano una certa soglia, esse sono percepite dal nostro cervello come pericolose, quindi è necessario far qualcosa affinché possano cessare o ridursi significativamente. Secondo l’approccio psicologico di matrice cognitivo comportamentale, soprattutto nella sua accezione di terza generazione (ACT – Acceptance and Commitment Therapy) gli esseri umani, nel tentativo di eliminare dolore e sofferenza dalle loro esperienze, adottano strategie che, a lungo termine, limitano fortemente le loro vite.
Questa fuga dal dolore ha un senso ovviamente, a nessuno piace soffrire. A volte però produce degli effetti a lungo termine che non sempre permettono di vivere le nostre vite in funzione dei nostri scopi e valori.
Portiamo ad esempio un piccolo spaccato di vita di chi soffre della sindrome da colon irritabile:
Nella variante diarrea, per esempio, sono frequenti scariche improvvise, o la sensazione di non completa evacuazione che si associa a fastidio addominale. Tale condizione promuove l’apprendimento“arbitrario” di specifiche regole e convinzioni: “avrò urgenza di un bagno e sarà terribile non trovarne, avrò dolore e non sarò sereno, le persone si accorgeranno del mio disturbo, delle mie difficoltà”.Alla luce di queste convinzioni, le persone limitano progressivamente le proprie attività, riducono le uscite da casa, si assentano da lavoro e rinunciano a quelle opportunità che potrebbero offrire fonte di svago e divertimento. I risultati? A breve termine ne hanno un sollievo dallo stato di incertezza e paura, si sentono più sicuri anche se spesso gli incidenti che immaginano, le crisi e gli episodi che desiderano prevenire non si realizzano.Sviluppano l’idea che il peggio non è accaduto perché si è scelto di rimanere in casa, o perché si sono agite tutta una seri di procedure o rituali che hanno aiutato ad affrontare la situazione.A fronte di un sollievo immediato dalla paura e incertezza si producono effetti a lungo termine ben più gravosi e complicati. Il restringimento delle attività produce una scarsa qualità della vita, con ripercussioni concrete sulla qualità dell’ umore e sullo stesso funzionamento del soggetto e la sua capacità di raggiungere scopi e progettualità; l’aderenza rigida a regole e procedure riduce la capacità di adattarsi al variare delle circostanza e situazioni, di agire con flessibilità le diverse scelte; l’alta sensibilità e attenzione alle proprie sensazioni e percezioni, soprattutto quelle gastrointestinali, produce una bassa soglia di attivazione ansiosa e allarme, con conseguente repertorio di fuga ed evitamento.
Le persone che riducono drasticamente la partecipazione ad ambiti ed attività prima importanti sviluppano, di solito, uno stato ansioso depressivo e la comparsa di ulteriori pensieri negativi a carattere svalutativo e catastrofico. Di conseguenza, le probabilità di riprendere la partecipazione alle medesime attività si riduce ulteriormente diventando un repertorio stabile ed inflessibile. Il dolore, inoltre, in presenza di ideazioni negative ed emozioni intense, viene percepito come più intenso ed incessante promuovendo la convinzione che la propria convinzione stia gradualmente peggiorando. Secondo la prospettiva dell’ ACT (Acceptance and Commitment Therapy) esistono due componenti del dolore, il dolore pulito e quello sporco. Per dolore pulito si intende quello naturalmente connesso alla vita di tutte le persone, legato prevalentemente alla sfera biologica. Nel nostro caso il dolore intestinale e la sofferenza connessa con la sintomatologia gastro intestinale. È fuori dal nostro controllo, non possiamo scegliere, pertanto, quando e come liberarcene. Il dolore sporco, invece, è quel tipo di dolore, o meglio “sofferenza”, che proviamo nel tentativo di eliminare o contrastare il dolore pulito; la conseguenza di quelle strategie mentali (mediate dal linguaggio) attraverso cui tentiamo di capire il “perché” di quel dolore, le sue “conseguenze” a lungo termine ed il suo “impatto” sul nostro benessere. L’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) si propone non tanto di eliminare il dolore o la patologia cronica (non perché non voglia ma perché impossibile)quanto piuttosto di cambiare rapporto con l’esperienza dolorosa. Quando entriamo in lotta contro il dolore, quando fuggiamo da esso (credendo che in sua presenza non sarebbe possibile svolgere le normali attività di vita quotidiana),quando cerchiamo di spiegarlo di attribuirlo a cause specifiche o responsabilità (questa è una strategia di problem solving normale che deriva direttamente dalle nostre proprietà linguistiche) stiamo inevitabilmente scegliendo di porre la nostra vita in stand by, ponendola al secondo posto rispetto all’esigenza di controllo delle emozioni e dei pensieri (ex. “Quando starò meglio, allora accompagnerò mia figlia a teatro..”). Il ruolo del terapeuta ACT è quello di aiutare il paziente a considerare il controllo e l’evitamento esperienziale per quello che sono, e a porre la persona in contatto esperienziale con i costi che derivano dall’uso di tali strategie. L’ACT che prende il suo nome da uno dei suoi messaggi centrali: “cambia atteggiamento verso quello che è al di fuori del tuo controllo personale, come può appunto essere il dolore, impegnati attivamente nel fare qualunque cosa possa migliorare la qualità della tua vita. sottolinea l’importanza di accettare piuttosto che tentare di controllare esperienze e pensieri negativi”(Hayes, Strosahl, & Wilson,1999, 2012). “Accettazione” comporta esposizione al dolore” così come viene sperimentato senza tentativi di evitarlo o controllarlo e persistere inattività “sane” anche quando il dolore è presente. Gli autori definiscono l’accettazione del dolore cronico come una disponibilità attiva di intraprendere attività significative nella vita senza tener conto delle sensazioni, dei pensieri e dei sentimenti collegati al dolore, sensazioni che altrimenti risultano precludenti le attività stesse (McCracken et al.,2004). Il nucleo della proposta consiste nel non attivarsi in violenti tentativi non necessari di fronteggiare le esperienze personali, tentativi che spesso hanno come effetto l’intensificare le componenti aversive delle esperienze stesse, pervadendo con influenze distruttive tutta la vita. Lo scopo dell’ ACT è di aiutare le persone a costruire una vita ricca e significativa, mentre gestiscono in modo efficace il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta. Gli attuali standard di psicoterapia non si muovono direttamente verso la possibilità di ridurre il dolore, piuttosto promuovono l’ampliamento del repertorio comportamentale anche in presenza di un vissuto interiore fatto di sensazioni intense e pensieri negativi. In tal modo si ottiene l’immediata rottura del circolo vizioso e si ristabilisce un’ adeguata partecipazione ai contesti di vita più significativi. In secondo luogo si promuovono la costruzione di un atteggiamento diverso verso il dolore, non più di lotta ed evitamento, non più mosso dal tentativo di comprendere o monitorare, viene costruita piuttosto la ben più funzionale capacità di stare con tutto ciò che è fuori del nostro controllo. Questo atteggiamento viene definito di acceptance e descrive appunto la capacità di stare con qualsiasi sensazione rinunciando ad ogni atteggiamento di lotta. In tal modo si consente alla nostra mente di scoprire che quello stesso dolore, prima intollerabile, se lasciato “decantare” nel tempo, esso stesso cambia e, perché no, si riduce. Un atteggiamento molto efficace, in tal senso, è la mindfulness, una pratica di regolazione volontaria dei processi attentivi attraverso cui si allena la capacità di notare ciò da cui siamo spinti a fuggire in modo diverso, “in modo volontario, non giudicante, gentile e disponibile”. Questo approccio non elimina il dolore, evita piuttosto che esso cresca raggiungendo livelli in grado di limitare le proprie attività e funzioni. Gli studi che hanno tentato di valutare l ’efficacia della mindfulness nel trattamento delle sindromi croniche hanno dimostrato una notevole efficacia nel ridurre il livelli di stress associati al dolore, nel promuovere la ripresa di un adeguato repertorio comportamentale, più funzionale agli standard che ogni persona desidera per la propria vita.