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Perchè la psicoterapia cognitivo comportamentale è attualmente l'approccio di psicoterapia più efficace?

Il modello cognitivo comportamentale della psicoterapia rappresenta, oggi e da più di 20 anni, uno standard di eccellenza nel trattamento non farmacologico delle principali forme di sofferenza psicologica (Otte, 2016). L’approccio cognitivo comportamentale (CBT), è indicato come trattamento di prima scelta (gold standard) per
un ampio numero di disturbi e patologie. La sua efficacia è stata dimostrata essere pari o superiore, in alcune circostanze, alla stessa terapia farmacologica, soprattutto se si prendono a riferimento, per valutarne l’efficacia, elementi quali durata, ricadute e solidità dei risultati nel tempo, e soprattutto impatto del nuovo e più funzionale repertorio comportamentale sulla qualità di vita del soggetto. Nonostante la disponibilità di un gran numero di evidenze scientifiche nel campo della psicologia, l’ampia e vasta offerta di modelli e approcci clinici rappresenta il più grave limite di questa disciplina. Appare quindi non solo utile, ma soprattutto necessario, disporre di un costante riferimento agli studi di efficacia dei modelli rispetto alle problematiche affrontate, permettendo a chi soffre di poter scegliere per il meglio nell'ampio e solido panorama delle terapie "evidence based". Il modello cognitivo comportamentale (CBT) è indicato, attualmente, come trattamento di prima scelta nel trattamento di un ampio numero di disturbi e condizioni cliniche. Nel disturbo da attacco di panico si registrano netti miglioramenti e la risoluzione completa dei sintomi nel 78% dei casi (Öst, 2008), con indici elevati di stabilità nel tempo (Norton e Price, 2007). Il disturbo da Ansia Sociale presenta una remissione significativa nel 76% dei pazienti (Öst, 2008, Norton & Price, 2007). Risultati medesimi si riscontrano nel disturbo Ossessivo Compulsivo (Otto et al., 2004, Abramowitz, 1997; van Balkom et al., 1994; Ougrin 2011) nel disturbo d’Ansia Generalizzata (Deacon & Abramowitz, 2004) e disturbo depressivo maggiore MDD (Gratzer & Goldbloom, 2016). Gli stessi risultati sono stati riconfermati da una review condotta da Christian Otte (Otte, 2016) e recentemente da un lavoro di un gruppo di ricercatori (David, Cristea e Hofmann 2018) i quali non solo hanno confermato lo status di (trattamento d’eccellenza) per il trattamento dei principali disturbi psicologici ma forniscono soprattutto le motivazioni che oggi rendono l’approccio CBT lo standard di eccellenza nel campo delle terapie psicologiche.


Sulla base di dati sperimentali gli autori (David, Cristea e Hofmann, 2018) hanno indicato alcune motivazioni a sostegno della loro tesi:

 

-      La Cognitivo comportamentale (CBT) è la forma di psicoterapia con il maggior numero di studi che ne hanno valutato l’efficacia, non esistono al momento modelli di
terapia che abbiano dimostrato efficacia superiore;

-      I modelli teorici e i meccanismi di cambiamento delle CBT sono stati i più studiati e sono in linea con gli attuali paradigmi tradizionali della mente e del comportamento umano.

-      La CBT è integrata nell’ampio paradigma del processamento delle informazioni, in tal senso è riconosciuto un ruolo causale delle cognizioni esplicite o implicite nel generare emozioni e comportamenti.

-      
La CBT è integrata in un quadro più ampio della scienza (per es. la neuro-genetica cognitiva).

-      
La CBT è in continua evoluzione in base alla ricerca cumulativa e critica.

 

La terapia cognitivo comportamentale non rappresenta, però, un approccio unico, monolitico, essa si differenzia per aree, fasi, generazioni (Hayes, S. C., & Hofmann, S. G., 2017). La prima generazione è rappresentata dalla terapia comportamentale. Finalità principale, attraverso l’applicazione dei principi comportamentisti, era quella di modificare i comportamenti manifesti, cioè tutto il repertorio di azioni ed atteggiamenti direttamente visibili alla persona. Intorno al 1970 la terapia comportamentale classica si muove in direzione della più recente Terapia Cognitivo Comportamentale: essa ha rappresentato un’innovazione nel campo della psicoterapia concentrandosi sull’impatto che hanno alcuni pensieri maladattivi su emozioni e comportamenti, individuando specifiche strategie e metodi per identificare e cambiare tali pensieri. Questa fase della CBT ha segnato una svolta per numerosi motivi, tra questi, per esempio, il merito di aver riconosciuto il ruolo dei contenuti di pensiero nella modulazione delle risposte emotive e quindi dei successivi pattern comportamentali. L’attenzione non era rivolta esclusivamente ai comportamenti ma si integrava delle modalità con cui la nostra mente interpreta gli eventi (interni ed esterni) individuando strategie efficaci nel modificare i contenuti di pensiero maladattivi e contribuire alla strutturazione di un repertorio più funzionale di emozioni e sensazioni fisiche, assumendo sempre e comunque una posizione attiva e creativa, senza mai tralasciare, semmai il contrario, la tradizione comportamentista. Quest’ultima ha sempre rappresentato una base imprescindibile su cui si sono costruiti tutti gli interventi di behavior change, anche quelli mediati maggiormente da strategie cognitive. I risultati ottenuti sono stati strabilianti, soprattutto se si considerano aspetti, quali, durata della terapia e mantenimento dei risultati nel tempo. Risultati quasi sovrapponibili a quelli di una terapia farmacologica. Nel tempo, però, si cominciarono a indagare alcune dimensioni legate al trattamento CBT classico per individuare la cause di alcuni limiti che nel tempo emergevano e cominciavano a rappresentare una costante, soprattutto per quanto riguarda le ricadute. In tal senso si posero le basi per la nascita della della terapia cognitivo comportamentale. I presupposti coincidono con le risposte che gli scienziati e i clinici furono in grado di dare alle domande precedenti. Le scienze cognitive e le neuroscienze risposero attraverso delle evidenze che oggi rappresentano alcuni dei principi più importanti dell’attuale Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e quindi della Relational Frame Therapy (RFT). Il linguaggio, e quindi il pensiero, rappresenta un salto evolutivo fondamentale per l’adattamento dell’essere umano all’ambiente. Esso è il risultato diretto della funzionalità di alcune strutture cerebrali specifiche, la neocorteccia ed alcune sue aree specifiche tra cui la corteccia frontale. E’ qui che il linguaggio trova espressione ed è qui che l’ambiente esterno, attraverso gli stimoli che fornisce all’ambiente, lo modella rendendolo funzionale all’esperienza dell’individuo. La Relational Frame Theory (RFT; Hayes, Barnes-Holmes, & Roche, 2001) ha descritto in modo molto efficace, e allo stesso tempo complesso, le caratteristiche proprie del linguaggio e del pensiero umano.  Secondo questo approccio, processo centrale del linguaggio e della cognizione umana è l’abilità, appresa e modellata dal contesto, di relazionare tra di loro in modo arbitrario, eventi presenti nel contesto (interno ed esterno) derivando automaticamente delle risposte relazionali che hanno il potere di modificare il significato di eventi e circostanze con cui entriamo quotidianamente in contatto in base alla loro relazione con altri eventi presenti nel “frame relazionale”. Questi e altri principi rappresentano qualcosa di molto importante e al tempo stesso complesso. Proverò pertanto a semplificarlo il più possibile concentrandomi sull’aspetto funzionale. La nostra mente è composta di numerose le quali rappresentano i processi attraverso cui il pensiero modula e coordina, per mezzo del linguaggio, tutti i processi cognitivi, compresi quelli non verbali come quelli percettivi per esempio. La CBT classica, nel suo proposito di modificare i singoli “nodi” (contenuti di pensiero) presenti all’interno della rete generava, il ché rendeva difficile, se non impossibile, la stabilità dei risultati nel tempo. Quando una rete cognitiva lavora sui suoi stessi nodi, cioè quando la mente prova a modificare sé stessa e nel farlo utilizza gli stessi processi che tenta di cambiare, in automatico quel processo genera un falso cambiamento. Quel nodo, quel pensiero che si cerca di cambiare, riceve in questo modo ulteriore attenzione, e quindi si consolida la sua importanza nel sistema cognitivo generale, generando fenomeni cognitivi tali per cui il cambiamento generato non è duraturo ed effettivo quanto fugace ed evanescente.
Gli stessi pensieri che si provano a cambiare sono comunque al centro dei processi attentivi e implicano non solo l’impiego di energie mentali per tentare di modificarli, ma contribuiscono anche a generare la convinzione che quanto si stia cercando di cambiare rappresenti qualcosa cui necessariamente dedicare le proprie energie, i propri sforzi. Tale dinamica è parte di un processo ancora più ampio detto cambiamento di funzione stimolo, attraverso cui uno stimolo che ha sempre avuto un certo significato (classe di equivalenza), a seguito di certi eventi (esterni o interni, verbali o comportamentali) assume il significato appartenente a un’altra classe di equivalenza (un altro significato). L’ascensore che ha sempre significato una risorsa utile a ridurre la fatica salendo le scale, dopo un evento per cui si è percepito di soffocare, l’ascensore diventa un pericolo, qualcosa da evitare.La psicopatologia, secondo il modello CBT di terza generazione, trova espressione nei processi verbali di attraverso cui la nostra mente gestisce stimoli e circostanze ritenute problematiche o comunque non in sintonia con i propri bisogni, negli atteggiamenti con cui, in modo innato prima e rinforzato da processi terapeutici poi (CBT classica) si tenta di modificare il contenuto verbale dei pensieri per renderlo più funzionale al comportamento umano.

 

La terza onda della


terapia cognitiva, piuttosto che concentrasti sulla riduzione degli stati emotivi ritenuti "negativi" e sulla modificazione dei contenuti di pensiero,  propone l’acquisizione di un repertorio comportamentale più ampio e flessibile, in alternativa a tutte quelle strategie di controllo e monitoraggio che il soggetto ha agito e consolidato nel tentativo di ridurre lo stato emotivo causa di sofferenza. Grande attenzione viene comunque dedicata ai vissuti interni (emozioni, pensieri, sensazioni); al soggetto viene proposto di assumere un atteggiamento nuovo, diverso, più funzionale verso i contenuti della propria esperienza interna, non più di lotta ed evitamento ma piuttosto, un processo di osservazione consapevole e non giudicante, non controllante, non evitante, di quanto emerge momento dopo momento. In tal senso ci si concentra maggiormente sul processo generale delle reti cognitive e non sui singoli nodi. Nel fare questo, la terza onda della terapia cognitiva, attraverso approcci quali  and Commitment Theory (ACT),  Dialectical Behavioral Therapy (DBT), Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT), Metacognitive Therapy (MT), Compassion Focused Therapy, Function Analysis Therapy (FAP) e molte altre terapie di terza generazione, propongono la pratica della mindfulness: un modo nuovo di rapportarsi all'esperienza interna, grazie alla quale coltivare apertura e disponibilità, a fronte di un atteggiamento di lotta e ad ogni tentativo di problem solving verbale.  In tal senso, interventi di questo tipo mirano direttamente all’apertura all’esperienza, all’accettazione, all’agire in funzione e direzione dei propri obiettivi e valori nonostante si faccia esperienza di stati emotivi e sensazioni, diversi da come si vorrebbe. Il dolore fa parte della vita e non può essere evitato o ridotto direttamente. Si possono solo adottare specifiche strategie di evitamento esperienziale che hanno la conseguenza successiva di restringere notevolmente il proprio campo di vita e azione, determinando un allontanamento da aspetti fondamentali quali i valori. La terza onda cognitivo comportamentale effettua un ulteriore, quanto fondamentale, salto di qualità rispetto al modello precedente (che non viene sostituito ma integrato) dedicando maggiore attenzione alla dimensione dei valori.

 

Quando la verità è definita da ciò che funziona, l’insieme di valori e obiettivi del cliente assume un’importanza fondamentale. Tutte le interazioni terapeutiche sono valutate secondo le modalità con cui entrano in relazione con i valori e gli obiettivi scelti dal cliente e il metro di misura è sempre la loro praticabilità [workability] – cioè se funzionano nella pratica – non la loro verità oggettiva. (Hayes et al., 2013, p. 40).

 

In questo piccolo stralcio Hayes, uno dei pionieri del movimento terapeutico di terza generazione, sottolinea l’importanza di un intervento clinico che non si focalizzi su problemi fuorvianti come il discernere la razionalità o meno di certi pensieri, quanto, piuttosto, sul comportamento agito in un determinato contesto in funzione di obiettivi e “valori” personali. Si passa quindi da una terapia orientata al benessere emotivo come stato interno da ottenere individuando e modificando i nuclei di pensieri disfunzionali, ad un modello la cui prospettiva prevede il “fare quello che mi fa stare bene”, in cui il benessere non è il risultato dell’eliminazione di qualcosa quanto dell’ampliamento di strategie ed abilità utili a gestire tutto quello che non è direttamente controllabile. Benessere come risultato di un atteggiamento detto flessibilità psicologica, al centro del quale si possono individuare 6 processi specifici di cui il terapeuta promuove l’acquisizione e l’allenamento:

Acceptance (apertura): quali, come capacità di fare spazio nella propria vita a quello che non può essere controllato direttamente (emozioni, impulsi, sensazioni dolorose);

Defusione: intesa quale abilità di fare un passo indietro riconoscendo pensieri, immagini, ricordi quali frutto del nostro pensiero e non espressione diretta della realtà
che ci circonda, osservandoli quindi per quello che sono e non per quello che crediamo essi siano (realtà da fronteggiare, gestire, controllare);

Sè come contesto: l'atteggiamento che aiuta a notare i contenuti mentali da una posizione diversa in cui l'individuo è diverso da ciò che nota, inteso come lo sfondo che non muta al variare dell'esperienza, lo sfondo che non viene modificato al modificarsi dell'esperienza;

Contatto con il momento presente: come l’abilità a notare cos’altro è realmente presente e disponibile nella mia esperienza sensoriale oltre a quello che cattura naturalmente la nostra attenzione imprigionandoci ed impedendoci di agire efficacemente;

Valori: intesi non come qualcosa di statico ma nell’accezione di quello che realmente è importante per noi nella nostra vita e per il quale valga la pena soffrire,
spostando l’attenzione dal concetto di “avere valori” a quello di “dare valore” a quello che per noi è importante.

Entra in gioco, quindi, l’ultimo processo dei sei:

Azione impegnata: attraverso cui agire un impegno concreto e visibile verso quello che realmente è importante per noi.

Questo modello dell’approccio cognitivo comportamentale prende il nome di Acceptance and Commitment Therapy, e si concentra su un modello che prevede appunto “l’aggiunta” di qualcosa che il paziente ha smesso di fare o che non ha mai iniziato a fare. In questo accezione, il percorso di terapia necessita di una spinta maggiore rispetto a quella che si aveva nella seconda generazione della CBT. Questa spinta maggiore proviene dal contesto valoriale dell’individuo il quale funge da rinforzatore in grado di guidare la persona non solo verso i propri obiettivi ma anche, e soprattutto, verso l’atteggiamento di maggiore flessibiltà psicologica.

 

 

David, D., Cristea, I.,& Hofmann, S. G. (2018). Why Cognitive Behavioral Therapy Is the Current Gold Standard of Psychotherapy. 

Hayes, S.C., Strosahl, K.D., Wilson, K.G. (2013). ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy. Milano: Raffaello Cortina.

Hayes, S. C., &Hofmann, S. G. (2017). The third wave of cognitive behavioral therapy and the
rise of process-based care. ,245-246.

 

Leichsenring, F., & Steinert, C. (2017). Is Cognitive Behavioral Therapy the Gold Standard for Psychotherapy?: The Need for Plurality in Treatment and Research. 

 

Poulsen, S., Lunn, S., Daniel, S. I., Folke, S., Mathiesen, B. B., Katznelson, H., & Fairburn, C. G. (2014). A randomized controlled trial of psychoanalytic psychotherapy or
cognitive-behavioral therapy for bulimia nervosa. 

  

Twohig, M. P., & Levin, M. E. (2017). Acceptance and Commitment Therapy as a Treatment for Anxiety and Depression: A Review. Psychiatric Clinics of North America,  40, 751.  DOI: 10.1016/j.psc.2017.08.009

 

Hughes, L. S., Clark, J., Colclough, J. A., Dale, E., & McMillan, D. (2017). Acceptance and Commitment Therapy (ACT) for chronic pain: A systematic review and meta-analyses.  33, 552-568. DOI: 10.1097/AJP.0000000000000425

 

Ost, L. G. (2014). The efficacy of Acceptance and Commitment Therapy: an updated systematic review and meta-analysis. , 105-121. DOI: 10.1016/j.brat.2014.07.018
 

Swain, J., Hancock, K., Hainsworth, C., & Bowman, J. (2013). Acceptance and commitment therapy in the treatment of anxiety: a systematic review. Clin Psychol Rev, 33(8), 965-978. DOI:10.1016/j.cpr.2013.07.002I

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