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Quando arriva il cancro. Non chiamateci eroi!

Vorrei esplorare, all’interno di questo articolo, una dimensione che da sempre si fa nicchia, per numerosi ed insormontabili tabù, la morte. Faccio riferimento soprattutto alla morte come conseguenza di una condizione patologica in cui siamo chiamati a sostenere cure estenuanti e dolorose, in assenza della prospettiva di una sicura guarigione. E’ questa incertezza a promuove l’attaccamento a specifiche dinamiche mentali e linguistiche, che vedono nel ruolo del guerriero la variabile in grado di ridurre l’imprevedibilità della malattia in favore della certezza della vita.

Emerge solido e coraggioso il valore eroico di chi è in grado, con le proprie abilità, di afferrare e trattenere la vita tra le proprie mani. Prima di condividere le mie personali riflessioni credo doveroso presentare i riferimenti e le testimonianze a cui mi sono ispirato: il giornalista Pierluigi Battista, l'ex calciatore Gianluca Vialli e quanti altri hanno offerto un modello di "paziente" non proprio eroico e senza paura, ma piuttosto fragile ed umano, ciò di cui abbiamo infinitamente e realmente bisogno.

Il giornalista, in un recente articolo scritto su Huffington Post ha descritto la sua esperienza con il Cancro, in risposta ad un progressivo naufragare di tutti i punti di riferimento concreti che guidano il nostro vivere quotidiano. Ha voluto contribuire al tentativo prezioso di riportare le nostre vite in una dimensione reale contro quella digitale, che dipinge il fare e il sentire senza più alcun punto di riferimento tangibile. Tutto è romanzato per creare e consolidare il mito del bello, del sano, del buon gusto, senza spazio per ciò che è invece reale: il dolore, il medio e mediocre, il difficile e i cibi spesso senza sapore. Tornando al contributo dei due autori, loro ci restituiscono una concreta immagine di come si vive quotidianamente con “ l’ospite indesiderato”:

“Una sequenza di notti insonni, di paura quando entri nel tubo della risonanza magnetica o della Tac, di terrore di guardare negli occhi chi ti ha appena fatto un esame, di gioia se quegli occhi esprimono soddisfazione: un altro ostacolo superato, tra un po’ ne arriverà un altro. Una guerra fatta di attese, sofferenze, debolezze dove sai che la tua volontà è importante ma non è l’arma determinante". (Battista)
"Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano".
“Non è come nel “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman, dove Antonius Max von Sydow gioca a scacchi con la morte”. “E se sbagli la mossa del cavallo, allora meriti la sconfitta definitiva, il cancro ha fatto scacco matto?”. (Battista)

Negli anni abbiamo visto materializzare l’immagine del supereroe che guarisce dal cancro grazie alla sua tenacia e lotta quasi vi fosse un ring o palco in cui poter giocare ad armi pari. Non porta segni della chemio o degli innumerevoli interventi chirurgici, porta piuttosto fiero una testimonianza social di coraggio eroico che lo ha guidato verso la vittoria, un coraggio che lo guiderà ad avere successo ed a non temere mai più alcuna esperienza negativa. Accanto ad esso il modello eroico di donna che partorisce e dopo due giorni ha il fisico di chi non ha mai partorito, alla ricerca esasperata di una forza che riesce anche a cancellare i segni del travaglio e dei nove mesi trascorsi con un bimbo in grembo. Apparire e mostrarsi al meglio per ricevere like e gratificazione che riempiono di una soddisfazione effimera, vuota, pericolosa! Un modello rischioso che offriamo alle generazioni più giovani ed al quale inevitabilmente si omologheranno. Questi modelli pompati hanno prodotto una progressiva e preoccupante ondata di sintomi psichiatrici quali ansia e depressione, soprattutto nelle fasce giovanili, più fragili. Hanno creato aspettative e messaggi contrastanti verso quanti vivono esperienze drammatiche come i pazienti oncologici:

“Per fatto personale, impudicamente una volta e poi basta. E dunque per fatto personale, per favore, non chiamateci ‘guerrieri’,non abusate con la magniloquenza del ‘sta lottando/ha lottato come un leone’,non gonfiate il petto con il “non arrendersi mai” rivolto a chi si aggrappa con tutte le sue forze alla speranza che il cancro non prenda il sopravvento. Così, bellicosi come apparite, non ci fate del bene, non ci incoraggiate, anzi, aggiungete angoscia ad angoscia". (Battista)
"Non lo considero una lotta, probabilmente ne uscirei distrutto - spiega - quindi lo considero, in questa fase della mia vita, come un compagno di viaggio che spero, prima o poi si stanchi e dica 'Ok, ti ho temprato, ti ho permesso di fare un percorso, adesso ti lascio tranquillo. Io ho paura di morire, eh. Non so quando si spegnerà la luce che cosa ci sarà dall'altra parte. " (Vialli)

"Angoscia aggiunta ad angoscia" è il costo della lotta verso ciò che non è nel nostro controllo.  Nel modello di sofferenza descritto dall’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) il dolore e la sofferenza sono descritti come esperienze fuori dalla nostra disponibilità: il cancro è un’ esperienza fuori dal nostro controllo. Siamo comunque bersagliati da modelli del vivere e agire orientati alla lotta efficace verso la sofferenza ed il dolore.  La società ed il comune sentire sono una rappresentazione collettiva di come funziona in piccolo la nostra mente, una macchina risolvi problemi, che vede nel dolore un problema da risolvere. Ed allora cosa ci suggerisce di fare per sfuggire al dolore e alla sofferenza? Il controllo! I tentativi e le dinamiche di controllo sono arbitrarie, creative, dipendono dalle circostanze e da ciò che funziona efficacemente. Queste dinamiche sono sottili e utili fino ad un certo livello, oltre il quale assumono un forte limite al benessere, al vivere ricco e significativo orientato al qui e ora. Il modello del guerriero che lotta è un approccio al controllo che si rende disponibile verso l’incertezza della malattia: costruisce una dimensione del vivere a contatto con il dolore in cui è possibile una qualche forma di azione, scelta, atteggiamento, utile a ridurre o interrompere la sofferenza. Affrontare in modo eroico il cancro, non mollare, non farsi spezzare e limitare nel vivere la propria vita appaiono strategie utili a superarlo efficacemente, e se poi riesci a non portarne addosso i segni sei ancora più bravo, ammirabile.

 

Qual è il vero effetto di questa convinzione diffusa?

Non esiste lotta attiva contro il cancro, se non quella della diagnosi e cura. Una rigida aderenza al modello "vincente" definisce una pericoloso percezione : “Chi lotta vince vive, chi muore ha perso, è stato meno bravo, si merita di morire perché non ha fatto abbastanza”.

 

“Morire sarebbe una resa? Soccombere significa non aver guerreggiato bene? Dove si sbaglia? Che tattica avremmo dovuto usare?Forse al dolore bisogna aggiungere l'umiliazione di una battaglia campale condotta male?” (Battaglia)

 

Questo tipo di deduzioni, alla base di normali processi di pensiero della nostra mente, hanno la capacità di incrementare i livelli di disagio e sofferenza, aggiungono angoscia ad angoscia e rendono terribili gli ultimi istanti di vita di una persona e dei suoi familiari.

 

Cambierebbe qualcosa senza questa angoscia, arriverebbe una miracolosa guarigione?

 

Probabilmente no, oggi la scienza è in grado di affrontare efficacemente gran parte delle malattie tumorali che prima non sapevamo neanche riconoscere, è in grado di aggiungere anni ad una vita con il cancro, è in grado di ottenere risultati sempre più incoraggianti ed efficaci ,ma non è abbastanza, non ancora!

 

“..invece degli squilli di tromba di chi ti esorta a fare il gladiatore, chi si sta impegnando allo spasimo per uscirne vivo avrebbe bisogno di affetto, di vicinanza, di attenzione, di ascolto, di non essere lasciato solo, di vita, e ha bisogno di oncologi che sono sempre più bravi, della scienza che continua a mettere appunto cure sempre più efficaci e plurali.” (Battaglia)

 

Il modo più efficace per sostenere una lotta impari è quella di non lottare contro la sofferenza che porta in sè; rinunciare a combattere contro un modello di debolezza e fragilità che non riusciamo a scrollarci di dosso, di quella debolezza che la nostra mente dipinge come responsabile per la nostra resa o mancata vittoria. Non è certo qualcosa che chiunque può riuscire a fare da solo.

La selfcompassion è tra le risorse che possono aiutarci in queste circostanze. Essere gentili con se stessi, con le proprie fragilità, parlare a se stessi come parleremmo ad una persona cara e che amiamo. Riconoscere le nostre fragilità e concedere loro, in modo amorevole e disponibile, il diritto di esserci ed esistere, ed a noi stessi il merito di essere la migliore versione di noi stessi alla luce di quello che stiamo vivendo o provando.

Anche il dolore di chi sta vivendo gli ultimi istanti della propria vita, di chi sa che non ha più di qualche mese o settimana di vita, merita di essere accolto, sostenuto, riconosciuto nel suo diritto di esistere.

Meritiamo il diritto di essere riconosciuti e riconoscerci come la versione migliore di noi stessi, qualsiasi sia l’esito dei nostri sforzi, del nostro impegno! L’obiettivo non è vincere, piuttosto essere in pace con la parte di noi e delle nostre scelte che crediamo abbiano dovuto o potuto essere migliori. Dalla vita nessuno esce vivo, possiamo solo vivere il più possibile a contatto con i nostri valori, in quel caso non si perde mai, si vince sempre!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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