Stimolazione e Riabilitazione cognitiva

La riabilitazione neuropsicologica, e ogni altro intervento terapeutico non farmacologico, fonda la sua peculiarità sul concetto di plasticità del cervello, la cui rilevanza, grazie al fattore di crescita della cellula nervosa, NGF, scoperto dallo scienziato Rita Levi Montalcini e cardine del concetto stesso di plasticità, ha permesso di strutturare ogni tipologia di intervento sul sistema nervoso. Non è raro, però, assistere a un utilizzo improprio dei termini Riabilitazione,Stimolazione, Training.

Con il concetto di RiabilitazioneCognitiva si fa riferimento a tutti i programmi di trattamento che mirano al recupero e/o compensazione del deficit a carico di uno o più funzioni, tali abilità o funzioni sono state precedentemente acquisite nel corso del suo sviluppo. Mazzucchi definisce riabilitazione neuropsicologica “lo studio delle opportunità riorganizzative assunte dal cervello che è stato leso; essa parte dal presupposto che le capacità neuroplastiche del nostro cervello, presenti dopo la lesione, siano guidabili per ottimizzare il trattamento riabilitativo orientato al raggiungimento del massimo grado possibile di autonomia e di indipendenza attraverso il recupero e/o la compensazione delle abilità cognitive e comportamentali compromesse; tale provvedimento risulta essere finalizzato, pertanto al miglioramento della qualità della vita del paziente e dal reinserimento dell’individuo nel proprio ambiente familiare e sociale” (Mazzucchi,1999). Partendo da questo presupposto si comprende come un approccio riabilitativo non sia tecnicamente possibile nel caso delle demenze, l’approccio riabilitativo, infatti, presuppone spesso l’apprendimento di una visione metacognitiva delle proprie funzioni cognitive, l’apprendimento di strategie e tecniche in grado di compensare o aggirare il deficit sfruttando le peculiarità plastiche del nostro cervello. Nel caso delle demenze, nonostante vi siano specifiche evidenze della capacità del cervello di riorganizzarsi anche in presenza di una patologia neurodegenerativa in fase lieve/moderata (ad esempio Onofrj et al., 2001; Lai et al., 2010),i risultati sono troppo spesso contrastanti ed in genere indicano una difficoltà del cervello, nelle persone ammalate, ad apprendere in maniera stabile nuove strategie da spendere in modo autonomo nella propria quotidianità. Tra le terapie non farmacologiche attuabili con soggetti affetti da demenza un posto di prim’ordine è occupato dall’intervento di stimolazione cognitiva che comprende inoltre il training cognitivo specifico. Mentre il training cognitivo comprende una serie di attività organizzate in modo da riflettere e simulare l’insieme delle funzioni cognitive, l’intervento distimolazione cognitiva definisce un processo interattivo, centrato sulla persona, il cui obiettivo è favorire il mantenimento delle funzioni cognitive integre attraverso la pratica di un’ampia gamma di attività che comprendono attività cognitive specifiche (ROT,Validation, Doll Therapy) e/o attività socio-ricreative, agendo sulla riserva cognitiva naturale, in modo tale da ritardare il processo dementigeno. Si tratta di un intervento strategico che mira, al contempo, a promuovere esperienze gratificanti che sostengano l’autostima e l’immagine personale.

L’approccio di stimolazione cognitiva parte da tre concetti fondamentali:

- L’irreversibilità e progressione del danno nei vari domini cognitivi cognitivo;

- Il concetto di neuro plasticità e riserva cognitiva:

- Il concetto di modularità delle funzioni cognitive;

 

Modularità dei sistemi cognitivi

Il sistema cognitivo è modulare, nel senso che vi sono diversi elaboratori cognitivi indipendenti. Una lesione cerebrale danneggia tipicamente solo alcuni di questi moduli, lasciando intatti gli altri (Fodor, 1983). Ogni modulo è costituito da un insieme di funzioni cognitive che operano in sinergia, dalla loro interazione emergono per esempio processi più complessi come la memoria o il linguaggio.

Plasticità Neurale

Il concetto di plasticità neurale fa riferimento a una qualità essenziale del nostro sistema nervoso, la capacità di modificarsi a seguito dell’esperienza che ricava dall’interazione con l’ambiente interno/esterno. Le neuroscienze classiche hanno ritenuto per molto tempo che il cervello fosse immutabile, rigido, soggetto ad inevitabile deterioramento.Dopo gli anni sessanta, grazie all’utilizzo di tecniche non invasive di osservazione, si è scoperto che in realtà il cervello è un “organo” dalle proprietà dinamiche, plastico.

Accanto alla capacità del sistema nervoso di ricevere una forma e dare a sua volta una forma, Malabou individua una terza funzione che è quella di intervenire sulla forma“assunta” in risposta ad eventi che hanno arrecato un danno specializzando in questo modo la riserva naturale disponibile. (Malabou, 2007).

“A riguardo, vanno distinti i termini flessibilità, maturazione, ed elasticità con quello di plasticità (Will et al,2008). La flessibilità indica infatti la capacità di assumere una forma, la plasticità invece indica la capacità intrinseca non solo di ricevere una forma ma anche di darsi una forma, di modificarsi; a riguardo, alcuni autori, tra questi Paillard, sottolineano che per parlare di plasticità il cambiamento che si deve generare deve essere sia di natura strutturale che funzionale. In questo caso, se i cambiamenti cui si assiste sono dovuti esclusivamente ad una normale fase di sviluppo di parla di maturazione del sistema nervoso e non si può parlare di plasticità perché essa va ben oltre gli aspetti maturativi del cervello”[1]. Le moderne neuroscienze riconoscono la capacità di neuroplasticità come caratteristica del cervello anche in età avanzata. LaPlasticità neurale sarebbe in grado, anche nei soggetti anziani, di riprogrammare le reti neurali e di compensare eventuali deficit attribuibili a traumi, lesioni, o malattie. (Begley, 2007; Bartels, 2008).

La plasticità non avviene soltanto in risposta ad eventi patologici, essa sarebbe presente anche nel normale funzionamento cognitivo (Blundo, 2007; Malabou, 2007); gli stessi autori propongono una descrizione del concetto di plasticità neurale intesa come: “Capacita dei circuiti nervosi di sfuggire alle restrizioni imposte dal corredo genetico e di variare la loro struttura e funzione in risposta agli stimoli esterni, alle modificazioni ambientali, all’esperienza e anche ai fattori intrinseci del soggetto”. (Blundo, 2007; Ansermet e Magistretti, 2008)

Definisce, inoltre, la capacità del cervello di recuperare parzialmente le sue capacità di interagire con l’ambiente esterno attraverso una riorganizzazione delle aree cerebrali non colpite da lesione.  Entra in gioco quindi il concetto di riserva cognitiva cui fa riferimento il nostro sistema nervoso nel momento in cui lo stesso viene maneggiato. Per riserva cognitiva s’intende l’insieme delle connessioni neurali che vengono attivate e/o sviluppate quando viene meno il circuito usualmente attivato agendo al fine di compensare la funzione danneggiata.

Il numero di cellule di cui disponiamo sarebbe dunque maggiore del reale numero richiesto, questa peculiarità del cervello è definita “ridondanza”. Grazie a questa risorsa sopportiamo meglio eventuali danni, i neuroni in “esubero” fungono da riserva naturale, tale disponibilità entra in gioco quando le strutture danneggiate non sono più in grado di assolvere le funzioni per le quali si sono specializzate. Afferma Stern (Stern, 2009) individui con elevata riserva cognitiva resistono più a lungo al danno cognitivo, i sintomi clinici si manifesterebbero quindi sono in una fase avanzata di malattia.  Meta-analisi su 29000 persone (Valenzuela eSachdev, 2006) ha dimostrato, in soggetti con alta riserva cognitiva, una riduzione del rischio di sviluppare demenza rispetto a individui con bassa riserva cognitiva. Inoltre, nei soggetti con demenza lieve o in una fase in cui essa non incide irreversibilmente sul funzionamento cognitivo (MCI), è stata evidenziata la possibilità di indurre importanti modificazioni dei network-cerebrali.  L’ha dimostrato uno studio, condotto da Bergamaschi e collaboratori, che ha utilizzando apposite misure dei potenziali evento-relati (ER) misurati dopo un intervento di stimolazione cognitiva.

I dati ottenuti suggeriscono come dopo l’esercitazione di un compito cognitivo ci sia stato un apprendimento e un cambiamento delle strategie legate all’esecuzione del compito stesso, che si riflette nei cambiamenti d’attivazione corticale ottenuti al post-training, segnalando una riorganizzazione plastica dei network corticali ancora funzionanti."

Le attività stimolanti come quelle ricreative, logiche e comunicative, che tengono conto di attuare un approccio globale al paziente, con un impatto sulle funzioni della vita quotidiana, hanno un impatto notevole sul benessere del soggetto (Farina et al. 2006). La stimolazione cognitiva produce maggiori risultati quando assume una prospettiva più globale e centrata sulla persona, soprattutto nell’ambito della demenza severa (Linda Clare, 2007). L’efficacia di tali interventi è stata inoltre dimostrata sulle modalità e strategie comunicative, le relazioni interpersonali sembrano più soddisfacenti e mostrano una maggior e attenzione del soggetto nel ricercarle (Davis et al, 2001; Spector et al.,2001; Romero e Wenz, 2001; Passafiume et al., 2001).

Alcuni studi hanno confermato l’efficacia di alcuni programmi non farmacologici combinati. Un programma terapeutico composto da un memory training e da una stimolazione delle performance funzionali si è dimostrato efficace nell’obiettivo di migliorare i compiti sottoposti ad esercizio anche dopo tre mesi dalla stimolazione. Le linee Guida Nice (National Institute of Clinical Excellence) del 2006 indicano di assicurare la partecipazione ad un programma strutturato di stimolazione cognitiva per tutte le persone con demenza lieve moderata.

Un approccio che ha ricevuto numerose classi di evidenza è quello proposto da Spector. Il programma, chiamato Cognitive Stimulation Therapy (CST) è stato sviluppato presso la University College of London.Consiste in una serie di 14 incontri, due volte alla settimana per 45 minuti, che trattano temi generici come giochi fisici, l’infanzia, l’orientamento, giochi con i numeri, associazioni di parole, ecc. (Spector, Woods & Orrell,2008). I potenziali benefici della CST sono evidenziabili sia a livello cognitivo che a livello comportamentale e di qualità di vita. In una recente review(Woods B, Aguirre E, Spector AE, Orrell Mche, 2012) che ha coinvolto 15 trials con un totale di 718 partecipanti è stato dimostrato che la Cognitive Stimulation Therapy  (CST) garantisce degli effetti positivi sulle funzioni cognitive stimolate. La review ha chiarito inoltre che tali benefici sono riscontrabili maggiormente sui soggetti con demenza lieve, nei casi più gravi invece tali effetti non si registrano in modo stabile.



 

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